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Incostituzionale la presunzione legale di maggiori compensi per i professionisti

La sentenza 228/2014 della Corte costituzionale e le aperture al contraddittorio della circolare 25/E/2014 rafforzano la posizione del contribuente nell'accertamento effettuato con verifiche sui movimenti bancari. La Consulta ha infatti ritenuto incostituzionale l'articolo 32, comma 1, punto 2) del Dpr 600/1973 nella parte in cui prevedeva una presunzione legale di maggiori compensi nei confronti dei lavoratori autonomi che non riuscivano a giustificare i prelevamenti contestati. Alla luce di quest'ultima pronuncia, non vale più l'assioma «prelievi uguale maggiori compensi». Di conseguenza, con riguardo agli accertamenti bancari effettuati nei confronti dei professionisti, il maggior imponibile contestato deve derivare solo ed esclusivamente dalla somma dei versamenti non giustificati. Secondo la Corte Costituzionale quindi è del tutto arbitrario presumere che un prelevamento non giustificato da un lavoratore autonomo sia un investimento produttivo, successivamente, di un compenso e dunque di un reddito non dichiarato. Inoltre, secondo i giudici, lo svolgimento dell'attività professionale è ben differente da quella dell'imprenditore, figura per la quale la rilevanza dell'attività personale è ben più limitata.

La normativa di base, originariamente pensata per gli imprenditori, afferma un principio: laddove non vi sia una giustificazione a un prelievo (in termini di identificazione del beneficiario ovvero di corrispondenza con il contenuto delle scritture contabili), lo stesso può essere assunto per la determinazione di maggiori ricavi nell'ambito del reddito di impresa. Il principio è semplice: si acquista in nero al fine di produrre ricavi corrispondenti o non dichiarati. La legge n. 311 del 2004 ha esteso questa presunzione anche ai titolari di redditi di lavoro autonomo e, secondo l'interpretazione che ha fornito l'amministrazione finanziaria con la circolare n. 32 del 2006, tale modifica doveva essere interpretata come meramente di carattere procedurale. Appariva evidente, sin da allora, come l'affermazione fosse del tutto discutibile: non è da considerarsi come procedurale una norma che, nella sostanza, è suscettibile di produrre un reddito imponibile creando indirettamente un presupposto impositivo che, in alcuni casi, è meramente «matematico».

Nella sentenza è dato leggere come le questioni sottoposte all'attenzione dei giudici fossero due: 

  1. La prima attinente alla violazione del principio di capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost., oltre che dell'art. 3 Cost., in quanto, per il reddito da lavoro autonomo non varrebbero le correlazioni logico-presuntive tra costi e ricavi tipiche del reddito d'impresa e il prelevamento sarebbe un «fatto oggettivamente estraneo all'attività di produzione del reddito professionale», idoneo a costituire un «mero indice generale di spesa». Inoltre, la norma censurata sarebbe «irrazionale» qualunque sia la lettura a essa data tra quelle possibili: o la prova contraria che incombe al contribuente potrebbe ritenersi soddisfatta «con la mera indicazione del beneficiario, divenendo, però, tanto irrazionale quanto inutile sul piano dell'accertamento dei maggiori redditi» oppure - seguendo quanto sostenuto dall'amministrazione finanziaria - richiederebbe necessariamente anche la giustificazione causale dei prelevamenti, così imponendo «un adempimento aggiuntivo rispetto a quello rappresentabile sulla base di una lettura piana del testo normativo»; 
  2. La seconda attinente alla questione della retroattività con conseguente violazione delle disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente. La rilevanza della pronuncia risiede nel fatto che la Corte si pronuncia nel merito della disposizione normativa e dunque sul primo gruppo di censure stabilendo un principio: per i lavoratori autonomi la presunzione di specie viola un principio di ragionevolezza, essendo del tutto arbitrario ipotizzare che i prelevamenti, nel mondo professionale, siano destinati a un investimento proprio della attività e che questo sia produttivo di compensi e dunque di reddito. Quindi, un principio che a una prima lettura è ben più ampio rispetto alla mera questione della retroattività della norma ma che si sofferma in primis sulla profonda differenza tra l'attività di impresa e quella di lavoro autonomo anche in relazione all'impianto contabile complessivo. E del tutto evidente, che, dichiarando l'illegittimità della norma in riferimento al prelievo non giustificato che può divenire compenso, si mette in campo un onere probatorio ben più forte a carico dell'amministrazione finanziaria. Questo non significa, ovviamente, che nessun prelievo ingiustificato non potrà diventare compenso ma che il prelievo in questione dovrà trovare una rigorosa motivazione nel momento in cui lo stesso vorrà essere utilizzato ai fini della rettifica dei compensi.

La succitata sentenza interviene in un campo specifico (quello riferito ai professionisti) ma tocca anche un problema di rilevanza estrema sino a ipotizzare come tutta l'impalcatura fissata dai cosiddetti accertamenti basati sulle indagini finanziarie sia da ripensare. Che la capacità contributiva sia un baluardo insormontabile è innegabile. Che poi l'inversione dell'onere della prova sia da arginare è altrettanto palese.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 225/2005, ha stigmatizzato già tale meccanismo automatico arrivando a ricordare come nella rettifica si debba comunque tener conto dell'art. 53 Cost. Cosicché dunque non può apparire paradossale se quanto stabilito nella sentenza in commento, possa poi essere esteso oltre la questione esaminata in quanto correlata ai professionisti. Ritenere che le mancate giustificazioni, i prelievi soprattutto, nella loro pienezza causale siano poi ritenuti, sic e simpliciter, ricavi sottratti a imposizione è un automatismo che deve essere ripensato.

Anche la circolare dell'Agenzia delle entrate n. 25/E del 6 agosto 2014 ha ribadito che scopo delle indagini finanziarie è quello di ricostruire l'effettiva disponibilità reddituale del soggetto sottoposto a controllo, sottolineando come le presunzioni fissate... a salvaguardia della pretesa erariale devono essere applicate dall'Ufficio «secondo logiche di proporzione e ragionevolezza avulse da un acritico meccanismo...».

Da qui la possibilità, sulla scorta di una lettura allargata ed evolutiva della sentenza in commento, che la rettifica non possa mai sconfinare nell'arbitrarietà o irrazionalità ma debba arrestarsi alla concretezza dei fatti tralasciando di affidarsi a quegli automatismi messi in discussione dalla sentenza della Consulta.

La circolare 25/E/2014 sottolinea inoltre l'esigenza del contraddittorio preventivo nelle indagini finanziarie. Il documento pone in evidenza l'importanza che deve assumere il contraddittorio attesa la rilevanza delle presunzioni che si ricavano dall'attività di controllo per il tramite dello strumento delle indagini finanziarie e gli effetti che dalle stesse potrebbero derivare. Scopo del contraddittorio è quello di permettere al contribuente di giustificare preventivamente le operazioni finanziarie contestate e, dall'altra, all'ufficio di ricostruire l'effettiva disponibilità reddituale del contribuente evitando di giungere a contestazioni che si discostano dall'effettiva disponibilità reddituale del contribuente. Un'apertura che, però, fa il paio con un orientamento giurisprudenziale non certamente favorevole al contribuente. Sotto questo aspetto continua a essere di diverso avviso la Cassazione la quale, anche di recente (sentenza 20420/2014), ha ribadito come il contraddittorio preventivo con il contribuente è solo una mera facoltà e non un obbligo dell'ufficio che ricostruisce la posizione fiscale del contribuente attraverso lo strumento delle indagini finanziarie. In particolare secondo i giudici di legittimità gli articoli 32, comma 1, punto 2) del Dpr 600/1973 (per le imposte dirette) e 51 del Dpr 633/1972 (per l'Iva) non pongono un obbligo giuridico ma una semplice facoltà discrezionale in capo al Fisco che può rettificare il reddito dichiarato dal contribuente recuperando a tassazione le presunte somme non dichiarate e fondando tutta l'attività istruttoria sulla comparazione tra i dati che emergono dalla dichiarazione e quelli ricavati dalla documentazione e le informazioni ottenute dagli intermediari. La posizione dell'agenzia delle Entrate garantisce il principio di rilevanza comunitaria del contraddittorio preventivo. Nell'ambito del procedimento di accertamento tributario, il diritto del contribuente all'instaurazione di un contraddittorio con il fisco è ormai pacifico ponendosi quale necessaria espressione di un più ampio principio di diritto quale è il diritto alla difesa.

Il diritto di esporre le proprie ragioni (ossia l'elemento caratterizzante del contraddittorio) è sancito dall'articolo 6, comma 3, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Aspetto analiticamente ribadito nell'articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che proclama «il diritto di ogni individuo di essere ascoltato, prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento che gli rechi pregiudizio» come espressione del «diritto a una buona amministrazione». Tali principi sono stati, peraltro, cristallizzati dalla Corte di giustizia in base alla quale la necessità che il diritto di difesa deve trovare applicazione ogni volta che l'ufficio si proponga di adottare un atto capace di produrre effetti rilevanti nella sfera giuridica del destinatario. A livello interno sia lo Statuto dei diritti del contribuente (articolo u della legge 212/2000) sia la stessa Cassazione (sentenza 14105/201o) hanno riconosciuto in via generale l'illegittimità dell'atto impositivo notificato al contribuente non preventivamente ascoltato.



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